giovedì 3 febbraio 2011

Racconto #1: Disconnessione

DISCONNESSIONE
di: Marco Dominici

Disconnessione… e mi sveglio.
Sento la voce di mio padre che mi chiama dal buio, sono le sette, mi alzo, mangio, fumo la sigaretta, mi lavo, mi vesto, esco.
La vita incomincia: disconnessione dal buio, dal vuoto, dal nulla; disconnessione, questa parola prima di svegliarmi, mentre mi sveglio.
Stavo sognando, non ricordo cosa, non ricordo nulla, solo quella parola. Disconnessione dal sogno, come spegnere un interruttore, staccare la spina, tagliare i fili, basta, FINE, STOP, buio, e poi la vita che ti butta giù dal letto.
Sangue, grosse gocce di sangue pesanti e viscose che cadono nel lavandino, plick… sangue che si mischia all’acqua e va via, giù nello scarico del lavello.
Il rosso del sangue mi accende, vien voglia di berlo, vien voglia di prendere il dito ferito in bocca e di succhiare sino a prosciugare, vien voglia di fare dei piccoli tagli sul braccio con la lametta e di vederlo uscire, ammirarlo, caldo, corposo, nutriente. Sangue e Carne.
Voglio il tuo sangue.
- Ahi! - mia sorella Gina si è tagliata con il coltello mentre mi preparava la colazione, si porta il dito alle labbra.
- Fammi vedere - le dico mentre prendo un fazzoletto di carta. Le tampono la ferita. Voglio il tuo sangue...
... plick.

Esco di casa, giù in strada con la voglia di volare via, con in mente una goccia di sangue rosso fulgente, con la paura dei miei diciassette anni e la convinzione di dover avere almeno una certezza nella vita.
Dicono che diciassette sia un numero sfortunato, i precedenti lo sono stati... credo, non ricordo.
Cosa ho fatto in tutti questi anni? No, non ricordo e continuo a camminare.
Andrò a trovare Michele.
Qualcun altro dice che il diciassette porti fortuna.
A casa Michele non c'è, la madre mi dice che è andato a scuola.
Vado ai giardini.
Lo trovo alla solita panchina. E' da solo. Se ne sta lì immobile.
Mi siedo accanto a lui.
- Perché vieni sempre qui? -
- Ciao Mario. -
- Mi vuoi dire che vieni a fare? -
- Niente. -
- ... -
- ... -
- Quando tornerai a scuola? -
- Non torno. -
- Perché? -
- Non c'è nessun perché, è così, sto qui e cerco di non pensare, ma non ci riesco mai, è difficile. -
- Oggi non vado neanch'io, facciamo una passeggiata, ho voglia di camminare. -
Gli racconto del dito di mia sorella, sembra che non mi ascolti, ma non è così, lo so come è fatto, sembra sempre che non ti ascolti, guarda davanti a sé con aria assente, con gli occhi spersi, invece non lascia cadere in terra neanche una parola.
Gina gli piace, l'ho visto come la guarda, con attenzione, con curiosità.
Non le ha mai parlato, solo qualche ciao.
Dice che con alcune persone non c'è bisogno di parlare. Ha ragione.

Continuiamo a camminare e a parlare, il resto della giornata si perde in un niente.

Sette e trenta, cosa ho fatto ieri?
Non ricordo, alzati, mangia, sigaretta, acqua e sapone, deodorante, vestiti che fa freddo, metropolitana.
Da dove viene tristezza? Se è tutto buio non ci puoi fare niente, se non vedi niente dietro di te, se non c'è nulla davanti a te, non ci puoi fare niente, aspettare e trascinarti avanti, e sperare che salga qualcuno a suonare una canzone, di quelle vecchie, in modo che tutto cambi, perché così non si può.
E l'uomo sale sul vagone, e attacca una canzone che non conosco, portandomi via lontano dove non sono mai stato, dove non andrò mai, e vorrei dirgli grazie, ma non ho parole per lui, solo qualche moneta.
Due vecchie che sino a quel momento erano state in silenzio lo guardano con diffidenza, commentano tra loro a bassa voce, e quando lui porge il cappello facendo tintinnare le monete che ha raccolto quelle fanno finta di non vederlo. Chissà cosa si sono dette mi chiedo.

Ogni tanto incontro qualcuno che non c'entra niente con il resto, mi accorgo che c'è qualcosa che stona, ma non sono loro, è tutto il resto che non va.
Il contrasto che si crea rende le altre persone di carta, finti, piatti, totalmente inconsapevoli di se stessi, incastrati in un meccanismo che gira a vuoto, e sembra che non se ne rendano conto.
Mentre loro, che si guardano attorno chiedendosi cosa succede, hanno lo stesso sapore di persona vera dei puri personaggi inventati, che si incontrano nei libri.
Quando incontro queste persone le seguo.

Lei è sulla scala mobile davanti a me, si guarda attorno. Si accorge che la sto fissando e lei fa lo stesso, ho l'impressione che voglia dirmi qualcosa, e così distolgo lo sguardo.
Devo andare a scuola, ma comincio a seguirla senza pensarci.
Cerco di non farmi notare, di tenermi a distanza di sicurezza. Non mi interessa conoscerla, quello che voglio è solo guardarla, spiarla senza che lei se ne accorga, vedere come si muove.
Ha qualcosa di speciale, ma non riesco a capire cosa. Sembra che non vada da nessuna parte, passa tra le bancarelle del mercato, ma non si ferma a nessuna. E' abilissima a camminare tra la gente, svicola tra le persone senza quasi toccarle, come se non ci fossero, come fosse di carta sottilissima.
L'ho persa. Cammino più in fretta, cerco la sua testa tra le altre.
E' là, che guarda in alto, un palloncino blu che vola sopra i palazzi, e ancora più su, ma già so che ad un certo punto esploderà, e con lui il suo sogno, perché questa è la sua speranza, essere ogni momento un po'  più in alto di prima, vero?
E invece no, continua a salire, è un puntino blu nell'azzurro del cielo e poi è troppo piccolo, troppo blu per poterlo ancora vedere.
- Che cosa vuoi da me? -
Il cuore mi salta in gola, no questo non doveva succedere, che voglio da lei?
Niente, niente, non dovevi scivolarmi accanto senza che me ne accorgessi, non dovevi proprio.
La guardo senza risponderle, fingo che la mia sorpresa sia innocenza, come se non avessi seguito lei tutta la mattina.
- Perché mi stai seguendo? -
A questo punto non ho scampo, devo inventare un'altra bugia, una mezza verità...
- Veramente... mi piaci, non riuscivo a staccarti gli occhi di dosso... vorresti uscire con me? - e quando mi rendo conto che la bugia è più vera della verità per un attimo ho la speranza che dica di sì.
- ... -
- ... -
- Sei disperato - ora sorride, che bel sorriso che ha.
- Sei proprio disperato. Peccato, eri anche carino... addio. -
E non c'è più.
Ormai è tardi per andare a scuola.

Sull'autobus non c'è molta gente, ma lo stesso non ci sono posti a sedere.
Così mi aggrappo al sostegno con entrambe le mani e aspetto. Aspetto di arrivare a casa, aspetto vicino alle porte centrali, mentre l'autobus procede, si insinua nel traffico, con il suo carico di persone che aspettano. Aspetta anche lui al semaforo rosso.
Aspetto e guardo le persone parlare, qualcuno sta zitto per fortuna, vorrei spegnermi, sono solo stanco.

Non ricordo in che periodo dell'anno mi trovo, quanto manca alla fine della scuola, voglio andarmene (in nessun posto), voglio andare al mare con mia sorella Gina, fare castelli di sabbia con lei, scavare un'enorme buca e seppellirmici dentro.
Un moscerino mi si infila nel naso, lo aspiro trascinandolo dentro di me prima che me ne randa conto. I polmoni lo rifiutano e comincio a tossire ma non riesco ad espellerlo.
La gente comincia a guardarmi infastidita.
Tossisco ancora più violentemente, non riesco a trattenermi, e alla fine vomito, vomito sulle gambe dell'uomo seduto davanti a me, vomito il palloncino blu, il sorriso della ragazza, la musica lontana, la panchina dei giardini e il sangue di mia sorella.
Non rimane più niente, completamente vuoto.

Il padre di Michele è morto due anni fa.
Viveva da solo, era separato dalla moglie, e ogni tanto Michele andava a trovarlo e qualche volta lo accompagnavo. Suo padre mi stava simpatico, parlava poco ma aveva un sacco di fumetti.
Un pomeriggio lo abbiamo trovato morto, e quando l'ho visto sono corso via. Ho lasciato il mio amico da solo ad occuparsi di suo padre morto, sono un codardo.
Ho corso con lo stomaco in subbuglio, come adesso, corro verso casa dopo aver vomitato sulle gambe di un uomo, corro a casa, forse piango anche, vorrei che ci fosse Gina a casa ad aspettarmi, ho bisogno di lei.
Ho bisogno di lei?
Arrivo davanti al portone e mi attacco al campanello.
E' mia sorella ad aprire la porta, non qualcun altro, è Gina per fortuna.
La guardo negli occhi, proprio nei suoi occhi neri e le chiedo:
- E' pronto il pranzo? -
Lei sorride affettuosamente, mi fa entrare in casa.
- Sì, quasi, come è andata oggi? -
- Bene - ed ora mi sembra veramente che sia andato tutto bene.
E questo mi basta, mi basta davvero.